Non riesco a vedere le persone come monoliti. Non mi aspetto che restino fedeli alla loro forma e nemmeno alla mia, che possano aderire sempre alle superfici che ho inventato per loro. Forse perché non credo che la mia superficie resterà la stessa. La pelle invecchia e raccoglie il grigio del tempo che le scivola sopra, come polvere. Io sono cambiata tante volte. Lo dice la grafia sui quaderni di scuola e lo dicono gli scarabocchi di oggi. È cambiato persino il modo di battere sulla tastiera. Forse, è rimasta uguale soltanto l’ora in cui mi concentro su me stessa, notte, silenzio e buio. Un’altra consapevolezza.
Sono più consapevole, oggi, di avere un centro di gravità fragile. E così ho imparato a tenerlo un po’ più stretto, ad appoggiarmi sul mio disequilibrio come se fosse un appiglio stabile. Alla lunga funziona. Mi vengono in mente le pietre di una spiaggia a San Francisco, impilate una sopra l’altra, grandi e piccole, in un ordine che sembra magico talmente è sbilenco. Eppure rimane in piedi.
Io sono l’ultimo di quei sassi, quello più in alto, e il mio cadere o restare non dipende da me. Se cado, stavolta, è tutta colpa del vento.